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Il nulla dello stemma della repubblica italiana

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aragorn88
icon7  view post Posted on 13/5/2006, 14:15




Il nulla dello stemma della repubblica italiana


In clima di ricambio al Quirinale, note e notizie sul pentalfa che tutti ci unisce. Ci si perdoni l’ardire. La stelletta agghindata di molti cotillon è un simbolo brutto, confuso e funereo. Nacque con un concorso radiofonico, lo disegnò un valdese che Benito Mussolini apprezzava quando faceva il libero pensatore e Alcide De Gasperi approvò. Insomma, per il nostro Paese un vestitino da rigattiere


di Aldo A. Mola

Il Domenicale 6-05-2006



Stringi stringi, la decisione fu questa: metterci dentro di tutto, basta che non fosse la Croce o anche solo un campanile, qualcosa, insomma, che, sia pur vagamente, ricordasse la Chiesa. È questa, in sintesi, la storia buffa dello stemma della repubblica italiana. Eppure il bozzetto finale, approvato il 24 marzo 1948, reca l’approvazione del democristiano Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio dei ministri.
Andiamo però con ordine. Tanto per cominciare, gl’italiani conoscono davvero lo stemma? Sotto gli occhi, ce l’hanno sempre. È stampato su carte d’identità, passaporti, atti pubblici, e s’intravvede nelle antiche “carte da bollo”, ora sostituite da foglietti completi di marca. Ma com’è? Un guazzabuglio indecifrabile. L’unico simbolo netto è la stella a cinque punte. Osserviamo allora l’originale.
Due rami, uno di quercia l’altro di ulivo, a colori “naturali”, racchiudono una ruota dentata color cacchetta con cinque raggi nei quali s’inscrivono le cinque punte di una stella bianca, bordata vistosamente di rosso. All’intreccio dell’impugnatura dei rami, un cartiglio rosso sangue reca, in bianco, la scritta “repubblica italiana”. Non “d’Italia”, né “degli italiani”. Solo “italiana”. Mentre esistono la repubblica “di San Marino”, il principato “di Montecarlo” e simili, nello stemma della repubblica l’Italia scompare. Da sostantivo degrada ad aggettivo. Eppure l’articolo 1 della Costituzione ancora dice che «l’Italia è una repubblica». Lì l’Italia è ancora sostantivo.

Chiamato a esprimere il proprio parere sullo stemma, l’Ufficio Araldico della presidenza del Consiglio, vale a dire un organo di chi lo stava approvando, tagliò corto. Osservò che inizialmente i rami dovevano essere di quercia (simbolo della legge) e di alloro (emblema della vittoria). Già nella scheda per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 la repubblica era stata simboleggiata da un faccino femmineo, turrito e circondato da rami di quercia. All’ultimo momento, però, nello stemma l’alloro fu sostituito con l’ulivo. «Si ritiene doveroso segnalare – scrisse il conte Mario Tosi, cancelliere della Consulta Araldica – che la corona di quercia e di alloro ha significato di gloria eterna, mentre la corona di ulivo e di quercia potrebbe avere il significato funerario di pace eterna». Da toccarsi...
Ma come si arrivò a quel disegnino? E chi ne è l’autore? Dopo il colpo di mano che il 13 giugno 1946 abolì la monarchia e indusse Umberto II a prendere la via dell’esilio, con singolare tempismo il 19 giugno il presidente provvisorio della repubblica, Enrico De Nicola, liberale e monarchico, autorizzò la nomina di una commissione per sostituire lo stemma del Regno d’Italia. Il 27 ottobre De Gasperi la insediò. Presieduta da Ivanoe Bonomi, comprese un paio di costituenti, tra i quali il comunista Enrico Minio, e, con altri, lo scultore Duilio Cambellotti, buon amico di Paolo Paschetto (sul quale più oltre).

Femmine, bilance e vanghe.

Il 5 novembre la commissione bandì il concorso e, in nome della libertà creativa, stabilì quali dovevano essere le figure del puzzle repubblicano. Entro il 25 dello stesso mese gli «artisti italiani» erano chiamati a partorire proposte, evitando simboli di partito e ispirandosi all’unità, alla concordia e all’amore della Patria. Dovevano introdurre la «stella d’Italia», escludere personificazioni allegoriche e lasciarsi condurre dal senso «della terra e dei comuni». Concorsero in 346 con 637 disegni. Uno sfracello di mediocrità. Berretti frigi, bilance, vanghe, femmine in ogni posa, inclusa una a cavallo con tanto di berretto frigio, motti latini, fiaccole e, come da bando, tante stelle. Alcuni concorrenti proposero la stella a cinque punte (di Savoia? d’Italia? militare? pentalfa massonico?) sovrapposta alla ruota dentata, noto simbolo del Rotary internazionale. Furono tutti esclusi dai venticinque “artisti” che il 29 novembre 1946 vennero selezionati come fosse una finale di miss Italia. Il 2 dicembre la commissione tornò a riunirsi. «Dopo accurato vaglio», in sole due ore individuò cinque possibili aspiranti alla vittoria.

Però erano uno peggio dell’altro. Quindi il 14 dicembre la commissione spiegò per filo e per segno ai cinque finalisti che cosa dovessero disegnare: una cinta turrita a forma di corona dall’apparenza di nobile edificio (sic), con porta aperta, un po’ di mare in basso, stella raggiante in alto ed eventualmente il motto Unità Libertà. Dinanzi a quel diktat, qualunque vero artista avrebbe spezzato la matita. Invece i cinque proseguirono. Il 13 gennaio 1947 tra i nuovi parti fu scelto uno dei tre bozzetti presentati da Paolo Paschetto , ma s’incaricò il Cambellotti di guidargli la mano onde renderlo accettabile. Il 12 febbraio venne chiesto a Paschetto di prendersi il mal di pancia di presentare il disegnino non solo in bianco e nero, ma anche a colori. Il 24 febbraio la commissione approvò e, su proposta di Cambellotti, decise di esporre al pubblico non solo il vincitore ma tutti i bozzetti finalisti. L’avesse mai fatto. Furono tutti subissati da critiche infuocate. Anche il prescelto venne liquidato come una tinozza rovesciata, una vera schifezza.

Ci abitueremo, vedrete.

Per il comunista Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente, l’importante era che ci fosse la repubblica. Quanto al simbolo andava bene uno qualunque: «Quando ci saremo abituati a vederlo riprodotto, finirà con l’apparirci caro». De Gasperi, invece, rimaneva perplesso. Lo stemma di uno Stato ne sintetizza la storia, l’essenza. A carta costituzionale promulgata, il 21 gennaio 1948, vale a dire un anno dopo l’esposizione dei... mostri, venne bandito un secondo concorso. Per radio. Affluirono 197 disegni di 96 artisti. Roba da asilo infantile. Il 28 gennaio 1948 la nuova commissione scelse all’unanimità un bozzetto. Caso strano, era proprio del Paschetto già vincitore del primo concorso. Il 6 febbraio il consigliere delegato di una grande industria segnalò che «se un allievo di una scuola industriale presentasse un disegno analogo sarebbe senz’altro bocciato». Tuttavia De Gasperi approvò. Così il 5 maggio 1948 la repubblica ebbe lo stemma vigente.

Va detto, peraltro, che Paolo Paschetto (1885-1963) non arrivava dal deserto. Aveva amici fidati nella prima commissione. Di confessione valdese, autore di affreschi nella sala del ministro della Pubblica istruzione e delle vetrate del tempio valdese a Roma, è da ricordare anche perché Benito Mussolini ne pubblicò alcune incisioni nel proprio libello anticlericale Hus il veridico, ora ristampato da Arktos di Carmagnola. A quel tempo Mussolini faceva il libero pensatore, l’ateo dichiarato e l’anticlericale, e il valdese Paschetto gli dava corda. L’importante era sparare a zero contro la Chiesa di Roma.
Paschetto, o chi per lui, valeva comunque più di chi ne approvò il bozzetto. Possibile che De Gasperi non abbia capito che, a differenza dello scudo sabaudo, lo stemma della repubblica svanirebbe nel bianco del Tricolore? Possibile non abbia percepito che quell’accozzaglia di simboli possono certo accontentare alcuni, ma che, stella a parte, non comunicano nulla?
È una curiosa faccenda che fa il paio con l’“inno d’Italia”, tuttora e sempre provvisorio, attribuito a Goffredo Mameli, ma in verità composto dal padre scolopio Atanasio Canata. Nata male, la repubblica ha per norma il provvisorio.




 
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