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Cinema e calcio

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aragorn88
view post Posted on 3/7/2006, 10:43




Cinema e calcio: una storia d’amore mancata?


Le pellicole di casa nostra la buttano sul ridere.
Ma altrove nascono storie belle, umane e sportive


Luisa Cotta Ramosino

Il Domenicale 24-06-2006


Che il calcio cinematografico italiano sia stato, salvo pochissime ed episodiche eccezioni, materia di crasse risate piuttosto che di partecipi emozioni (e non fa eccezione l’ultima, mediocre fatica collettiva, 4-4-2, che traccia un quadro amaro del mondo dei non professionisti), potrebbe apparire, alla luce dei recenti avvenimenti, un fatto significativo. Affidati ad allenatori improbabili con il volto viscidamente antipatico di Lino Banfi, i footballeurs di casa nostra hanno scatenato quasi sempre più risate che tifo appassionato.
C’è chi dice che il problema sta tutto nella messa in scena (come trovare un attore che riproduca le prodezze dei grandi di questo sport? Prendere in considerazione il percorso inverso, pensando alle imbarazzanti performance vocali dei calciatori di casa nostra è di per sé uno spunto comico non da poco), ma a contraddire l’ipotesi ci sono titoli degni di nota prodotti qua e là per il mondo.
Pur senza raggiungere i fasti di altri sport più cinegenici (il basket, l’atletica, le varie corse) o più amati da chi il cinema lo fa davvero (il baseball), il calcio, infatti, ha “giocato” un ruolo significativo in alcune pellicole che spaziano dal film storico e di guerra alla commedia romantica, lasciando spazio anche a drammi sociali (My name is Joe di Ken Loach, 1998) e biografie (Best, 2000).

Il binomio guerra-calcio (oggi, invece, abbiamo la guerra del calcio o, in alcuni casi, una vera guerra sul campo a colpi di spintoni e azzoppamenti), per esempio, non è solo quello che ha reso indimenticabile Fuga per la vittoria (1981, protagonista Sylvester Stallone, ma anche, naturalmente, Pelè, capace di portare sul grande schermo i suoi mitici virtuosismi), ma anche quello che pone le premesse per il miracolo della pace nel recente commovente Joyeux Noel (2005). Se nel primo dei due film il calcio diventa insieme momento di riscatto e occasione di fuga (fino al prevalere della prima delle due dimensioni, che porta i prigionieri a mettere a rischio la possibilità di prendere il largo pur di portare a termine la partita), esaltando le personalità individuali e lo spirito di squadra, nel secondo caso il gioco, che consente di metaforizzare lo scontro tra le due parti (francesi e inglesi da una parte, tedeschi nella trincea opposta), si salda allo spirito di concordia del Natale per aprire una parentesi nell’orrore della Grande guerra.

Il calcio è, in questa storia ispirata a eventi realmente accaduti, quel terreno comune che consente di riaprire un dialogo laddove ogni forma di interazione umana sembra tradursi unicamente in uno scontro inumano. Sarà una speranza breve, ma egualmente preziosa, non a caso saldata con un afflato poetico (il canto) e religioso che va oltre gli odi di parte.
Ma il calcio, naturalmente, è anche e soprattutto il tifo che lo circonda, come raccontano, in modi opposti, Febbre a 90 (1997) e Hooligans (2005, in questi giorni sui nostri schermi, protagonista Elijah Wood). La prima pellicola, tratta da un gustoso volume di Nick Hornby, è di quelle capaci di riconciliare con lo sport maschile per eccellenza anche la femmina più riottosa, grazie al sorriso e alla chioma arruffata di Colin Firth, malinconico e incorreggibile tifoso di un Arsenal perennemente sconfitto (il suo riscatto può far ben sperare le simpatizzanti dell’Inter purché si trovino un tifoso altrettanto tenero e fiducioso). Quando lui paragona la fidanzata all’allenatore dell’amato 11 come si può resistergli?

È pur vero che di calcio giocato nella pellicola si vede ben poco (sono inquadrate soprattutto le partite della squadretta scolastica allenata dal protagonista con piglio battagliero), ma il duello a distanza tra la bella di turno e la squadra che inconsapevolmente porta su di sé il peso della difficile infanzia del protagonista, è di quelli capaci di strappare risate, ma anche qualche pensiero più profondo.
Così come accade per il calcio multietnico di Sognando Beckham (2002), atipico soprattutto perché giocato da ragazze (l’indiana Parminder Nagra e l’ossuta Keira Knightley). La giovane protagonista, indiana d’Inghilterra divisa tra rispetto della tradizione e desiderio di affermazione personale, vive il calcio come luogo di libertà (anche se è costretta a nascondere le gambe non tanto per ragioni di pudore, ma perché segnate da profonde cicatrici), senza per questo rifiutare in toto il mondo a cui sente di appartenere. Sul suolo britannico, del resto, il calcio è abbastanza amato da riuscire a svolgere (anche grazie ai begli occhi blu di Jonathan Rhys Meyers) quel ruolo di aggregazione e positiva assimilazione che altrove svolgono altri sport (l’esempio migliore è Remember the Titans – Il sapore della vittoria, 2000, dedicato alla storia vera di una squadra mista nei campionati di football universitari).
Così se le performance sportive di Keira e Parminder faranno forse storcere il naso al pubblico maschile capace invece di perdonare le performance attoriali di Totti e Del Piero in alcune recenti pubblicità, è certo però che qui il calcio riesce davvero ad incarnare, come fa lo sport nelle pellicole migliori a esso dedicate lo slancio individuale e lo spirito di corpo, prestando l’entusiasmo scatenato dalle azioni di una partita alla costruzione di un emozionante e credibile arco emotivo.





 
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