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Tutto il bene di Lost

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aragorn88
view post Posted on 30/4/2006, 14:16




Tutto il bene di “Lost”


Una fiction nata per scommessa e mandata in onda con rassegnazione ha incantato il pubblico statunitense e poi il nostro, tanto che è stata lei la regina della serata elettorale, altro che Vespa & c. Vedere per credere

di Francesca D'Angelo e Luisa Cotta Ramosino

Il Domenicale 22-04-2006


La prima a essere sopravvissuta è proprio lei: la serie. Perché sulla carta Lost aveva tutti i numeri per esser un colossale flop. Il telefilm della Abc, in onda su RaiDue, prende le mosse da quarantotto sopravvissuti a un disastro aereo. Sconosciuti l’uno all’altro. Catapultati tra fiamme e fuoco in un’isola deserta del Pacifico, abbandonata da Dio (forse no) e dagli uomini (questo di sicuro). Una premessa narrativa a dir poco tombale: ideale come finale per un film action, non certo come incipit per un serial chiamato a resuscitare le sorte della Abc.

In quegli anni, 2003/2004, il canale americano era in picchiata d’ascolti: slittato al quarto posto dietro le concorrenti Nbc, Cbs e Fox, cercava una via d’uscita. Un programma forte che alzasse gli ascolti senza troppe incognite. Lost poteva rappresentare la rinascita o il colpo di grazia: sebbene il concept incrociasse con magica alchimia l’appeal del reality Survivor con le visioni di Ai confini della realtà, le sue spinte narrative minacciavano di esaurirsi in poco tempo. Cosa far fare ai quattordici protagonisti, tra loro estranei, staticamente bloccati in un’isola? Oltre alle perplessità narrative, il pilot rappresentava per il network un azzardo anche sotto l’aspetto economico. Incurante delle avversità, il presidente della Abc Lloyd Brown aveva stanziato la folle cifra di 12 milioni di dollari per la realizzazione dell’episodio pilota. Un film lungo 2 ore, da girare nel cuore delle Hawaii. Senza nemmeno avere sottomano la sceneggiatura dell’intera serie. Nemmeno i due sceneggiatori, J.J. Abrams e Damon Lindelof, sapevano ancora come avrebbero sviluppato il telefilm. Nelle loro mani c’erano solo 25 pagine di script, la sceneggiatura dei primi due episodi e molta ispirazione.

Una scommessa che non è piaciuta alla casa madre Walt Disney: non potendo bloccare le riprese, ormai avanzate, il presidente Disney Michael Eisner licenziò Brown e mandò in onda la serie senza crederci. Per poi rimanerne piacevolmente stupito. In America la prima stagione ha incollato davanti agli schermi 17,7 milioni di telespettatori a settimana, inaugurando la resurrezione di Abc. Approdato in Italia un anno dopo, il serial ha conquistato gli abbonati Sky per poi andare in onda in chiaro su RaiDue con un clamoroso share del 15%. Il successo da noi è tale che il 10 aprile, in pieno ballottaggio elettorale, i beniamini della Abc danno la polvere a Vespa & c. registrando lo share del 20,01% in prime time. Nel frattempo Sky si è già garantita la seconda stagione, su Fox a settembre, e oltreoceano già si lavora alla terza.

Lost quindi è sopravvissuto alle infauste premesse. E senza accusare acciacchi. Merito di una superba sceneggiatura che, lontana dalle facili soluzioni narrative, sfrutta tutto il potenziale d’archetipo racchiuso nella storia. Il primo punto di appeal è rappresentato sicuramente dai quattordici protagonisti, ognuno foriero di diverse chiavi di coinvolgimento: l’adulto e il bambino, l’asiatico e l’italoamericano, chiunque può identificarsi in uno degli eroi perduti tifando per la sua sopravvivenza. Perfino il pacifista, con il discusso personaggio dell’ex soldato iracheno Sayd, trova pane per i suoi denti. Quattordici eroi decaduti, persi nel corpo e nell’anima, capaci di creare un largo, sfumato, bacino di sensibilità e vissuto. Con cui lo spettatore inevitabilmente entra in risonanza. Sognando e tremando di paura. Così, lungo gli intrecci narrativi, di puntata in puntata, la dimensione della perdita si allarga a centri concentrici coinvolgendo il pubblico, tra slanci di umanità ed enigmi alla Alias.

Ma il vero colpo di genio è rappresentato da un altro punto nevralgico della storia: l’isola. Che è la vera protagonista della serie, incarnazione dell’interrogativo drammatico, oltre che catalizzatore delle innovazioni introdotte nel genere.
Abbandonati ospedali, agenzie segrete, pub e distretti, J.J. Abrams e Damon Lindelof hanno preso il loro estro creativo per traslocare la propria fantasia su un’isola. Qui la loro scrittura s’è impregnata di suggestione e simbologia. L’isola infatti rappresenta con forza due elementi primari, essendo una terra circondata dalle acque. Ossia una mortalità immersa nella vita, nella rinascita: tradizionalmente la terra ricorda la morte («polvere sei e polvere tornerai») e l’acqua la vita (ci si battezza con l’acqua e Venere sorge dal mare).
Forti di questo volano, i due sceneggiatori hanno liberato dall’autoreferenzialità la storia: pur ambientati su una claustrofobica terra circondata dalle acque, gli intrecci narrativi riescono ad aprirsi dimensionalmente, lungo spinte narrative orizzontali e verticali. La prima sfrutta elegantemente la difficile tecnica del flashback, aprendo fronti di narrazione ambientati nel mondo reale, ormai perso dai protagonisti. Grazie a questi squarci conosciamo il vissuto dei personaggi, comprendendone reazioni, aspettative, desideri. La seconda è centrata sulla dimensione sovrannaturale dell’isola, popolata da creature improbabili o misteriose. Che mettendo a repentaglio la sopravvivenza stessa dei protagonisti spinge a “guardare al di là del cielo”.

Due corde diverse che, nel giro di poche puntate, fanno evolvere in spessore l’interrogativo della storia: dal “Sopravvivranno?”, lo spettatore inizia a chiedersi “Qual è il senso, la ragione, della loro presenza sull’isola?”. Qui sta lo scarto che differenzia la serie da tutte le altre, rendendola cult: incuriosire sulla possibilità di un luogo, altro da sé, dove perdersi per ritrovarsi e riconciliarsi. Come una sorta di gigantesco purgatorio. Dove non si può azzerare con il passato. Ma viene data una seconda possibilità. Il fascino di ricominciare, anche se con fatica. Affrontando gli spettri quanto le nuove sfide.
Passato, presente e futuro per la prima volta si intrecciano, proponendo una sintesi narrativa intrigante. E non banale. Che dire? Lloyd Brown aveva proprio visto giusto.

Francesca D'Angelo


Il segreto si chiama J.J. Abrams



Chi è e come lavora lo sceneggiatore che ha inventato l’isola misteriosa (e, prima, Alias). E che per questo Tom Cruise ha chiamato alla regia di Mission Impossible 3

Cos’hanno in comune una tormentata studentessa universitaria e un’agente segreta dai mille talenti? Secondo l’uomo che le ha create, prima sulla pagina e poi sul video, Sidney Bristol, adrenalinica spia di Alias, e Felicity, problematica ventenne protagonista dell’omonima serie tv, in realtà non sono poi così diverse. Nei quattro anni in cui è andata in onda con buon successo, Felicity, prima serie creata da Jeffrey J. Abrams (classe 1966, figlio d’arte, il padre è un produttore televisivo con un curriculum di tutto rispetto) ha permesso a questo autore d’indubbio talento (e versatile, da sempre partecipa alla scrittura delle colonne sonore dei suoi lavori e ben presto s’è dato alla regia) di mettersi alla prova in una scrittura low concept e character driven (cioè, tecnicamente, concentrata sui personaggi e sulla dimensione relazionale) affinando la capacità di costruire personaggi complessi, super-introspettivi e verosimili a cui il pubblico non poteva fare a meno d’affezionarsi.

Niente di strano per uno che all’università teneva come “bibbia” la sceneggiatura premio Oscar di Gente comune. Meno prevedibile la svolta successiva, che l’ha portato al timone di Alias, un telefilm che dal punto di vista della struttura e dello sviluppo sta all’estremo opposto: cioè, all’americana, plot driven e high concept, cioè centrato sull’intreccio e sull’eccezionalità degli eventi e delle sfide rappresentati. Una sfida soprattutto perché, come non sarà sfuggito all’occhio attento, le mille località esotiche tra cui si muovono gli agenti delle varie organizzazioni con cui l’atletica Sidney Bristol e i suoi colleghi hanno a che fare finiscono per essere “ricostruite” in modo (relativamente) artigianale, contando sulla confusione creata da intrecci sempre più complessi per ingannare l’occhio dello spettatore.

È così che, dopo aver lavorato anche per il cinema (Armageddon è la sua collaborazione di maggior rilievo), J.J. Abrams s’è costruito una carriera tra quei preziosissimi professionisti che sono i creatori e produttori di serie, i cosiddetti creative producer, veri deus ex machina alla guida di show da svariati milioni di dollari che tentano di conquistarsi un posto nel cuore degli spettatori nella variegata offerta della televisione americana.
Con la sua aria da ragazzino (che non può non provocare un moto d’angoscia in qualunque trentenne che non vanti lo stesso curriculum) e un’energia apparentemente illimitata, Abrams, mentre Alias consolidava la sua quota di pubblico (sugli 8 milioni, non un’enormità ma abbastanza da garantire la prosecuzione dello show), era già al lavoro sul pilota di un nuovo progetto quando per la prima volta ha messo gli occhi su quello che sarebbe diventato Lost.

Anche se la prima idea non è sua (ma del co-creatore Damon Lindelof), Lost è diventato esattamente come la summa dei talenti di Abrams, capace come pochi altri di tenere alto, anzi altissimo, il livello della tensione e del mistero (chi può dimenticare i diabolici manufatti di Carlo Rambaldi in Alias?), ma anche di andare dritto al cuore dei personaggi per raccontarne l’umanità più segreta .
La scrittura di Abrams non sfugge ad alcune costanti. Una tra tutte la predilezione per personaggi femminili forti e fragili allo stesso tempo, spesso al centro di dinamiche relazionali più complicate e delicate dei complotti su cui indagano. Così se J.J sostiene che Sidney è una Felicity con il mondo da salvare oltre che tormentarsi per i suoi quotidiani problemi di cuore, i fan di lungo corso di Abrams si ricorderanno che prima del triangolo Kate/Jack/Sawyer c’è stato quello, appassionante e spassoso, tra Felicity, Ben e Noel, che l’autore aveva saputo tenere su un filo d’imprevisto senza annoiare per quattro anni (da fare invidia a qualunque soap opera). Merito di un gusto per il racconto che unisce profondità a leggerezza e riesce a nascondere lo spessore delle tematiche in un tessuto narrativo talmente ricco da soddisfare nello spettatore sia il desiderio di nuovo che il piacere della consuetudine con storia e personaggi.

Dal punto di vista produttivo, l’alto livello di controllo che produttori-scrittori come Abrams possono esercitare sul prodotto costituisce una garanzia di continuità preziosa che permette di lavorare in modo industriale (come riuscire, altrimenti, a realizzare in poco più di 4 mesi un pilot di due ore dai costi esorbitanti?) senza perdere originalità e qualità della scrittura e della realizzazione finale. Abrams, seguendo una scuola diffusa nella televisione americana, s’è progressivamente guadagnato credito e controllo acquistando competenza (e responsabilità) in tutte le fasi della lavorazione, dalla concezione dei personaggi e degli episodi alla regia. Un investimento che si è rivelato estremamente vantaggioso in termini di carriera.
È vedendo alcuni episodi di Alias, infatti, che Tom Cruise ha deciso d’ingaggiarlo per Mission Impossible III, già entrato nella storia come il debutto registico più costoso di sempre. C’è da sospettare che il contributo di Abrams alla saga della spia Ethan Hunt, sarà percepibile anche e soprattutto nella definizione del privato del protagonista, che sembra aver largo spazio nella pellicola prossimamente sui nostri schermi.

Luisa Cotta Ramosino
 
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