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Belle senz'anima, i frutti acidi del concilio

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aragorn88
icon9  view post Posted on 30/4/2006, 14:24




Belle senz’anima


Povere o costose, le cattedrali moderne sono brutte e scostanti. Non è da beghine chiedersi come mai. Da cittadini del mondo, ci preoccupa un’epoca senza cielo. Le nuove chiese sono invivibili e noi non ne possiamo proprio più di Dio parcheggiato in garage



di Giuseppe Romano

Il Domenicale 22-04-2006



Non è un discorso estetico. Il bello è stretto parente del vero e del buono, l’aspetto dice molto di quello che siamo dentro. Ha ragione chi affermava che dopo i trent’anni si è responsabili del proprio volto: siamo tutti in qualche modo dei Dorian Gray, però il nostro vero ritratto orribile o grazioso lo portiamo in faccia.
È per questo che la faccenda delle chiese brutte è preoccupante. Se quarant’anni fa Étienne Gilson precisava che non è stata solo la fede a costruire le meravigliose cattedrali del Medioevo, ma anche la geometria, oggi dobbiamo chiederci se la geometria, da sola, basti per erigere una cattedrale.
Si direbbe di no. Si direbbe che le odierne cattedrali religiose tradiscano nella loro nuda materialità l’insufficienza e inadeguatezza dei loro costruttori. E se ciò potrebbe sembrare a qualcuno un segno di conquistata laicità, a noi pare invece una debolezza di cui risente tutto l’impianto della cultura contemporanea: si creda o no in un Dio superiore – e in definitiva la fede rimane sempre una questione personale –, è palese che una società che sa guardare al trascendente è più aperta di una società riduzionista e contenta delle apparenze materiali.

In Spagna dicono mirar de tejas abajo, guardare dai tetti in giù, per indicare che in certi casi occorre pragmatismo. Ma qui non è questione di pragmatismo. Siamo una società che s’è abituata a guardare soltanto dalle tegole in giù. Lo dimostriamo proprio quando dobbiamo rappresentare il cielo, costruendo edifici che, pur coperti da tetti, quel che dovrebbero è spalancare le altezze e non precluderle. Vorremmo fossero preoccupate, le gerarchie ecclesiastiche, dei riflessi artistici e architettonici di questo limite vistoso, che tutti possiamo constatare: un limite antropologico, che esprime l’incapacità a mettersi in rapporto reale con la trascendenza. La chiesa, come edificio, per i cattolici non è infatti soltanto il luogo dell’assemblea o delle relazioni: fosse così si potrebbe forse tollerare che le chiese odierne assomiglino sempre più smaccatamente a stadi e a teatri, quando non a garage o a stazioni del metrò. Magari a begli stadi o a bei garage, quando va bene (e non sempre va bene), ma non è un astratto concetto di proporzioni estetiche che rende bella una chiesa: la sua bellezza è in stretta connessione con ciò che una chiesa radicalmente è.

Diversamente da una moschea o una sinagoga o un edificio di culto protestante, una chiesa è anzitutto, il luogo della presenza fisica di Dio: la fede nell’Eucaristia fa sì – o dovrebbe, per i cattolici – che quanti entrano nello spazio sacro si trovino in un “cielo aperto”, una dimensione che è diversa da quella mondana ma non meno reale e fisica, oltre che spirituale.
Dovrebbero tenere a mente, i cattolici committenti e costruttori di cattedrali, un episodio narrato negli Atti degli apostoli: quando san Pietro viene trasportato in visione nella dimensione celeste perché Cristo vuol insegnargli il valore della materia. Pietro, da ebreo osservante, credeva che mangiare certe carni fosse impuro come ai tempi dell’alleanza ebraica; Cristo invece gli apre il cielo e gli mostra una folla di animali; li indica e gli dice «uccidi e mangia», liberamente, «e non considerare profano ciò che Dio ha purificato» (10, 10-16). Come dire che se si possiede una dimensione superiore, si giudica meglio di quelle inferiori. Se c’è qualcosa “oltre”, l’apparenza riceve nuovo spessore. È l’uomo materiale che trae vantaggio dalle altezze dello spirito.


Ma le chiese cattoliche, oggi, che spessore e che altezza hanno da offrire a uomini e donne che le guardano, vi entrano, le frequentano? Grigie, fredde, inospitali, tetre, disadorne; se “belle”, belle di una misura altera, distanziante. La risposta sconfortante all’interrogativo non ricade solo sugli architetti, ma investe anche committenti e fruitori: è vero che chi costruisce è miope, chi affida la costruzione non lo è meno e chi accetta di entrarvi senza disgusto sta a un livello analogamente deplorevole.
E se qui in Italia abbiamo la fortuna di custodire molti tesori architettonici di altre epoche, è anche vero che fermarci a quelli equivale a trasformare il senso religioso in archeologia: sotto questo profilo tra S. Pietro, S. Maria del Fiore e le piramidi la differenza si attenua assai.
La gente va sempre meno in chiesa. Ma non è la fede il primo problema. È il rapporto della fede con il reale, la sua incidenza nella vita privata e pubblica. Gli scalpellini che a Colonia, a Parigi, a Milano e a Burgos arabescavano la pietra in luoghi inaccessibili allo sguardo dei fedeli – le guglie e le capriate delle cattedrali gotiche non erano fatte per essere ammirate da occhio umano, specie in assenza di quell’energia elettrica che oggi aureola i monumenti da ogni prospettiva – attestavano davanti all’intera città dell’uomo che Dio ci guarda. E così intendevano coloro che li assoldavano per scolpirle.

Oggi s’insiste sulla morale e sui comportamenti: giusto, per carità, ma esiste un intero orizzonte di riferimenti oggettivi che ispira la condotta perché la precede, la fonda e l’accompagna. Chi mai si sente affascinato o intimorito da uno di quei casamenti sgraziati che affollano le nostre città moderne? Anche se li chiamiamo chiese, non lo sono. Chi ci abiterebbe, chi ne vorrebbe far casa propria? E tuttavia com’è possibile che si dedichi a Dio ciò che non si accetterebbe per sé? Domanda capitale che fa il paio con l’interrogativo sulla povertà dei materiali e degli arredi. Anche nelle case più umili il salotto dove si accolgono gli amici contiene il meglio che si è nella possibilità di racimolare. La tovaglia della festa, l’argenteria di famiglia, il vaso infiorato, il lume di candela. Il calore, l’accoglienza, la centralità dell’ospite rispettato. Esattamente il criterio che presiedeva all’architettura ecclesiastica fino a duecento anni fa. Da allora in avanti, invece, preti socievoli e alla mano affermano sbadatamente che è meglio darli ai poveri, i soldi che si spenderebbero per fare una chiesa accettabile. Senza rendersi conto che i poveri di tutto il mondo diverrebbero magari un po’ più ricchi in denaro, ma ancor più poveri in sostanza, perché le chiese brutte impoveriscono il mondo intero.
E, d’altra parte, chiese costosissime affidate ad architetti sordi allo spirito hanno dato risultati non migliori: garage di lusso multipiano anziché garage di borgata; dove sta la differenza?

Proponiamo un tentativo di decodifica culturale che dovrebbe interessare quanti sono coinvolti nella riflessione su ciò che implicano certe prevalenze simboliche e certe consuetudini perfino linguistiche. Se è vero che in altri tempi l’edificio più insigne era il tempio, e tutte le altre modalità di edificazione vi si richiamavano per analogia (la domus era la casa del dominus, degli déi, poi degli imperatori e poi degli uomini, signori questi in rapporto a quelli), se ne dovrebbe dedurre che essendo oggi gli edifici più rilevanti ed elaborati gli stadi e i megastore, è al gioco e al mercato che riferiamo le nostre aspettative migliori: restando alla lingua di quei padri, panem et circenses. “I nuovi dèi si allenano qui”, recitava non per caso la pubblicità di una catena milanese di palestre poco tempo fa.
Si dice che Benedetto XVI voglia imprimere un giro di vite al rigore nella liturgia; ad attestarlo l’inattesa nomina, l’11 dicembre scorso, a segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti dello srilankese monsignor Malcom Ranjith, uomo di primo piano.
Il papa fa e farà il suo dovere. E tuttavia la questione delle chiese va oltre il dovere: per costruirne di belle occorre bellezza. Cioè, per l’argomento di cui parliamo, uomini capaci di costruire tetti guardando anche dai tetti in su.





Perché le chiese moderne sono brutte

Il problema, nell’architettura religiosa contemporanea, non è ricalcare la forma dei tempi andati. I tradizionalismi vuoti e ciechi non servono. Ma neppure la sperimentazione scriteriata. Più che la sordità degli architetti, nuoce il silenzio dei liturgisti che dovrebbero spiegare cos’è e a che serve il luogo del culto, e il culto



di Ciro Lomonte

Il Domenicale 22-04-2006


Le chiese moderne non persuadono. Visitandole si percepisce la difficoltà dei contemporanei di esprimere il trascendente nelle opere d’arte sacra. I fedeli sono condannati a frequentare chiese che assomigliano spesso a palestre, garage, supermercati, scuole, o addirittura piscine. Forse chi le ha disegnate intendeva riprodurre le situazioni della vita quotidiana nei luoghi demandati all’incontro con la Trinità. Eppure in questi ambienti stranianti non si riesce a instaurare alcun rapporto né con Dio né con gli uomini. A volte si avverte la solitudine come in nessun altro spazio. E pensare che la chiesa, ormai, non è più il luogo dove si prega, ma dove si fa l’assemblea, proprio come avviene nelle aule di culto protestanti.
Si dice che le chiese moderne siano brutte. Al giorno d’oggi un’affermazione del genere rischia di essere priva di senso, persino quando capita che alcuni stilisti decidono di rendere il brutto alla moda nei capi di vestiario. Cos’è mai il bello? Come può attribuire un valore universale all’oggetto della percezione estetica chi professa il relativismo più dogmatico?

L’architettura moderna del Novecento ha prodotto opere d’arte anche in questo ambito. Il guaio è che sono un monumento che l’architetto fa a se stesso, come il santuario di Ronchamp, di Le Corbusier, o le chiese di Alvar Aalto. Da questo punto di vista non sono architetture riuscite, perché le si potrebbe utilizzare per altri scopi, operazione che risulterebbe impossibile nel caso della cattedrale di Chartres o di S. Carlino alle Quattro Fontane.
È comprensibile l’insoddisfazione che dette origine più di venticinque anni fa a movimenti come quello dell’”Architettura tradizionale”, una corrente artistica che propugna un ritorno alle forme del passato. Ma il rimedio è peggiore del male, poiché è piuttosto irragionevole riproporre in cemento armato stilemi nati in altre epoche, in altre culture, con altri materiali e differenti soluzioni tecnologiche.
L’Architettura tradizionale, il cui esponente di maggiore spicco è Léon Krier (1), è assai diffusa nei paesi anglosassoni, dove conta molti seguaci fra gli architetti di chiese. Questi ultimi rendono un pessimo servizio a tutta la Chiesa cattolica, oltre che ai loro clienti, appartenenti a gruppi nostalgici del Concilio di Trento. Dimenticano che la modernità secolarizzata è figlia – per quanto degenere – della religione cattolica, l’unica che ha sempre valorizzato pienamente la ragione. È proprio vero, il tradizionalismo è la fede morta dei vivi, la Tradizione autentica è la fede viva dei morti. Il rinnovato dialogo tra fede e arte passa necessariamente attraverso la cura dei focolai d’infezione che hanno condizionato negativamente lo sviluppo della civiltà occidentale.

Alle radici del disagio.

Da dove ripartire, allora? Da un lato occorre che gli edifici per il culto siano belli, dall’altro bisogna che assolvano adeguatamente alla funzione per la quale sono progettati. Le due esigenze sono strettamente collegate.
Consideriamo innanzitutto le difficoltà in ambito estetico. Dalla sintassi dell’architettura moderna è stato escluso per principio il decoro, componente indispensabile per progettare le chiese cattoliche. È questa la ragione essenziale per cui le chiese moderne sono spoglie, quasi fossero sottoposte a una furia iconoclasta preventiva. La concezione di Dio dell’architetto, di solito astratta, viene espressa con una magniloquenza dei volumi ingiustificata. Un edificio non è una scultura. Fare irrompere sulla scena urbana una chiesa a forma di barca o di tenda non contribuisce a mettere ordine in un paesaggio caotico né a organizzare l’aula di culto. Il tempio cattolico è affatto diverso dal tempio greco, giacché lo spazio interno è più importante del volume esterno e va studiato con enorme cura.
Alle nude pareti vengono addossate immagini spaesate delle Tre Persone divine, della Madonna e dei santi, che potrebbero essere rimosse o spostate senza modificare l’effetto dell’insieme. Si entra in ambienti anodini, senza sapere dove dirigersi, dato che non c’è un motivo particolare perché il crocifisso o il tabernacolo stiano in un posto anziché in un altro.

La liturgia cattolica ha bisogno dell’ornamento simbolico perché i segni evocano e attualizzano eventi storici. Inoltre la Rivelazione attribuisce un grande valore al corpo e alla materia. L’arte moderna non ha le risorse per esprimere queste verità, fra l’altro perché si rivolge a un’élite di intellettuali e non a una variegata comunità di fedeli comuni. Chi volesse imboccare nuovi percorsi di sviluppo dell’architettura e delle arti figurative dovrebbe entrare nel merito delle ragioni che hanno spinto le avanguardie a rifiutare la rappresentazione del corpo. È questo il problema centrale, non quello delle tecniche, considerato che il programma iconografico dello spazio liturgico si presta a complesse installazioni, molto attuali. Non è indispensabile ricominciare ad affrescare le pareti (tecnica peraltro sconosciuta alla maggior parte degli artisti contemporanei). Si potrebbe tentare per esempio la strada dei video, purché aiuti a descrivere nella sua integrità il mistero cristiano.


Criteri eterodossi.

Esaminiamo in secondo luogo le insufficienze funzionali. Progettare una chiesa richiede la comprensione dei luoghi della celebrazione, in particolare la tribuna per la lettura della Parola di Dio e l’ara su cui si rinnova il sacrificio del Calvario. Il progetto dovrebbe partire dall’altare, non dall’involucro. Da questo punto di vista le maggiori responsabilità della inadeguatezza delle chiese moderne ricadono sui committenti.
Nel 1960 ebbe notevole risonanza in Inghilterra e Irlanda la pubblicazione di un libro di Peter Hammond, Liturgy and Architecture. Sebbene scritta da un anglicano, l’opera ebbe una grande influenza sulla progettazione delle chiese cattoliche. L’autore sostiene che la chiesa è la “Casa del popolo di Dio” (domus ecclesiae) piuttosto che un edificio dedicato all’adorazione di Dio (“Casa di Dio” o domus Dei). Non ci sarebbe nulla da eccepire a questa definizione classica, se non fosse che il senso originale viene stravolto: Dio è considerato tanto immanente al suo popolo da sparire del tutto. Ponendo l’accento su un funzionalismo radicale, egli propone uno spazio idoneo a radunare l’assemblea attorno all’altare, enfatizzando l’azione stessa del radunarsi.

Vengono così rigettati il valore centrale dell’Eucaristia e la natura gerarchica della Chiesa, che trae origine dal sacrificio dell’altare. L’edificio per il culto è sì considerato simile agli organismi viventi, ma di tipo elementare, come l’ameba o il paramecio (2). Sarebbero questi i nuovi termini di paragone per disegnare una chiesa, non più il corpo umano, come si vede invece nei trattati di architettura del Rinascimento. Non è affatto banale che i manualisti inseriscano la figura umana, indicata da Vitruvio come «misura di tutte le cose», all’interno della pianta di chiese a croce latina, in un gioco di rimandi simbolici fra le membra vive del Corpo Mistico e le parti dell’organismo architettonico.
La riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II è stata attuata da liturgisti e teologi che ne hanno frainteso i principi ecclesiologici. È nota l’interpretazione neomodernista di documenti del Concilio, quali la Sacrosanctum concilium e la Lumen gentium. Va ricordato che quei documenti non parlano soltanto della Chiesa come Popolo nuovo di Dio – Popolo con la P maiuscola, società soprannaturale organizzata dal Fondatore divino, non folla anarchica animata da un dio ignoto –, ma anche come Corpo Mistico di Cristo e Tempio dello Spirito Santo. È a queste definizioni trinitarie che bisogna fare riferimento per progettare i luoghi in cui la Chiesa locale si riunisce per celebrare i sacramenti. Si tratta infatti delle idee centrali a partire dalle quali la Chiesa conosce se stessa e i cristiani conoscono sé stessi come membri della Chiesa. Il venir meno di questa comprensione è uno dei motivi per cui l’architettura per il culto è priva di un “linguaggio sacramentale”.

Quanti liturgisti hanno oggi un senso “sacramentale” della liturgia? Quanti hanno fede nell’efficacia soprannaturale della grazia? Non sarà che per loro il segno ha valore a prescindere dalla realtà significata? La Messa è una partecipazione profonda alle realtà spirituali attraverso una complessa struttura simbolica (le disposizioni della chiesa, i ministeri, i paramenti, le suppellettili, le parole, le preghiere, i movimenti, i gesti). Quanti liturgisti si basano su una comprensione reale della persona umana per definire gli spazi e i momenti della celebrazione? Occorre tener conto del modo in cui l’uomo si rapporta allo spirito attraverso la materia, tramite memoria, immaginazione, percezione estetica, sensi, emozioni e pensieri: tutte le potenze irrorate da una vita di preghiera genuina.

Un fenomeno senza precedenti.

Di chiese brutte si può parlare a partire dai primi esperimenti del Movimento liturgico, nato nella prima metà dell’Ottocento nell’abbazia benedettina di Solesmes. Semplice coincidenza?
Qualcuno ha detto che la Chiesa ha interrotto il dialogo con gli artisti da almeno due secoli a questa parte. A ben guardare una simile affermazione non convince, perché il Movimento liturgico provocò sin dall’inizio la ricerca di nuove forme artistiche. Il guaio è che lo fece in nome di un egualitarismo troppo spinto, elaborando una concezione di “spazio universale”, dove tutti i partecipanti e tutti i luoghi dell’azione rituale hanno lo stesso peso, che precede con largo anticipo le riflessioni di Hammond. Il teologo Romano Guardini (1885-1968) ebbe un continuo e fecondo scambio di idee con Rudolf Schwarz (1897-1961), vale a dire con un raffinato architetto e pensatore cattolico. Non era un dilettante di architettura sacra quale si è dimostrato Richard Meier nella “chiesa del Duemila”, quella di Roma intitolata a Dio Padre misericordioso, costata oltre 15 milioni di euro. Eppure le chiese di Schwarz sono desolanti scatole di cemento, glaciali come la punta di un iceberg che rivela la presenza di un corposo pensiero razionalista (3).

Non era mai avvenuto in passato che l’architettura sacra fosse frutto dell’incontro di liturgisti temerari, le cui legittime aspirazioni per una migliore partecipazione dei fedeli superassero il limite dell’ortodossia, con artisti che non riescono a fare a meno di impiegare linguaggi tipici di un mondo secolarizzato. Fino al XIX secolo si era registrato nell’architettura per il culto un rapporto continuo tra l’evoluzione omogenea del dogma, la fede viva dei costruttori e la loro abilità costruttiva (sviluppata nell’alveo di una cultura realista). E le chiese erano esempi spesso insuperati di bellezza, che hanno resistito alle prove del tempo.
Nella prima fase della diffusione del cristianesimo si passò dalle domus ecclesiae alle chiese siriane (mutuate dal modello della sinagoga) e alle basiliche romane. Vennero perfezionati alcuni tipi molto chiari nella loro partizione (area dei catecumeni, luoghi del battesimo, della parola, dell’eucaristia, cattedra,...) e idonei al dinamismo dell’azione liturgica. Sembra che i fedeli si muovessero molto durante la celebrazione: uomini e donne entravano da porte differenti, si disponevano attorno agli amboni, poi si spostavano verso l’altare, si giravano a oriente durante la consacrazione, ecc.

Alla vivacità della liturgia corrispondeva una grande libertà creativa, maggiore di quanto non sia dato comprendere a chi visita oggi i monumenti paleocristiani o bizantini, manomessi dall’uso più recente o dai restauri. Ripristinare una ipotetica sistemazione originaria è molto difficile nelle chiese antiche, perché gli adeguamenti liturgici apportati nei secoli sono stati a volte brutali. Sono state disperse parti di amboni dal sottile valore simbolico (l’ambone non era un semplice leggio, era il sepolcro vuoto dal quale veniva dato l’annuncio della Risurrezione). Più di recente sono stati smembrati altari del Santissimo Sacramento di splendida fattura artigianale.
I primi cristiani avevano una profonda consapevolezza della chiamata universale alla santità, che si è affievolita con la grande evangelizzazione di massa dei barbari. La loro fedeltà al messaggio evangelico costituiva il solido fondamento della libertà di spirito con cui modellavano lo spazio fisico, impiegavano le arti figurative, componevano la musica, ecc.
La liturgia mantenne la spinta creativa anche nei secoli del romanico e del gotico. Fintantoché la Chiesa non ebbe il problema di affrontare i gravi errori dottrinali dei protestanti, la varietà di espressioni dell’azione liturgica fu molto ampia. Soltanto dopo il Concilio di Trento la celebrazione venne costretta entro forme molto rigide, giustificate dalla necessità pastorale di difendere la retta dottrina. Era necessario, in particolare, sottolineare la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Borromeo imbrigliò con prescrizioni minuziose la ricerca di soluzioni nuove che permettessero di considerare ancora la liturgia una sorta di opera d’arte totale (4).

Chiese “drive in”.

L’introduzione graduale dei banchi (le cui origini remote risalgono all’autunno del Medioevo) aveva ridotto nel frattempo la possibilità di movimento dei fedeli durante la celebrazione.
«Storicamente il banco appare piuttosto tardi […]. Prima di allora i laici stavano in piedi o in ginocchio secondo le prescrizioni, dato che non c’erano posti a sedere. Fino a quell’epoca, è interessante notare, uomini e donne erano spesso separati durante i riti. Nell’Oriente cristiano le donne a volte stavano in piedi in una galleria superiore della navata detta gynaikon. […] Per i medievali, che immaginavano l’Inferno ad ovest e ritenevano il nord la terra del paganesimo, questa sistemazione conferiva alle donne della comunità il compito di proteggere i meno santi e meno forti dalla tentazione più grande! Come si vede nelle Istruzioni di san Carlo Borromeo, questa distribuzione era ancora rinvenibile nel XVI secolo. […] A partire dal XIII secolo alcune chiese furono dotate di panche senza schienale. I banchi veri e propri furono adottati per primi dai protestanti, per consentire di rimanere seduti durante sermoni che duravano ore. In modo simile essi divennero più comuni tra i cattolici allorché la Controriforma attribuì una grande importanza liturgica alla proclamazione della Parola. Verso il tardo XVI secolo le panche divennero più grandi e fisse, con inginocchiatoi e alti schienali, e spesso con pannelli scolpiti finemente.

«Nei recenti adeguamenti delle chiese spesso sono stati rimossi i banchi per sostituirli con sedie monoposto non fisse. Ciò comporta sia vantaggi che inconvenienti. I posti mobili hanno l’indubbio pregio di rompere la staticità della navata e di offrire un’immagine più organica dell’assemblea. Sebbene le sedie esprimano meglio il ruolo della singola persona nella comunità, esse hanno anche un effetto meno familiare dei banchi. Forse la giustificazione più banale è che esse permettono pure facilmente di cambiare la sistemazione delle chiese: un simbolismo piuttosto dubbio, dato che le chiese dovrebbero parlare dell’eterno piuttosto che dell’effimero. L’altro difetto delle sedie è che i posti individuali possono ricordarci i posti a sedere dei teatri. Possono suggerire una relazione da spettatore e quindi non incoraggiare la vera partecipazione. […] È spiacevole che la rimozione dei banchi in molte chiese, specialmente in America, abbia comportato l’eliminazione degli inginocchiatoi e anche della pratica dell’inginocchiarsi» (5).
Il Concilio Vaticano II ha promosso in vari modi la partecipazione piena, consapevole, devota e attiva dei fedeli. Eppure essi si sono notevolmente impigriti, tant’è che frequentano più numerosi le parrocchie in cui sono previste maggiori comodità per attirarli. Si ha l’impressione che converrebbe progettare chiese “drive in”, dove si possa entrare in automobile.

Alcuni sacerdoti rischiano di mettere tra parentesi il ruolo di maestra della Chiesa per inseguire le mode del momento, coltivando l’illusione di attrarre e coinvolgere i fedeli. Ne sono esempi sia la consuetudine inappropriata di cambiare o abbreviare a proprio piacere i testi liturgici, sia quella di introdurre nella celebrazione canzoni ispirate a tradizioni musicali poco consone a elevare lo spirito.
La riforma liturgica è nata dal desiderio di porre l’Eucaristia al centro e al culmine della vita di tutti i cristiani, laici compresi. Essa però è stata interpretata scorrettamente come un invito a trasformare i riti in uno “spettacolo” di matrice protestante, senza un reale coinvolgimento dei fedeli, se non negli aspetti più superficiali. La celebrazione dei sacramenti è divenuta una forma di intrattenimento, con appelli a sensi ed emozioni e addirittura con applausi (il chiasso melenso provocato da alcuni sacerdoti è un silenzio tombale per le orecchie degli architetti: essendo ingiustificato, non offre alcuna indicazione utile al progetto). Il sacerdote è diventato l’attore pressoché solitario di una recita all’interno di un teatro molto statico, in cui gli spettatori sono bloccati ai loro posti con gli occhi fissi su di lui.
Le difficoltà non sono superate neanche dalla distribuzione “avvolgente” dei posti a sedere, tanto cara ad alcuni liturgisti, che del resto non è neppure rispettosa del modello dell’Ultima cena nel cenacolo. Sembra quasi che la riforma liturgica si sia arenata prima del guado, senza raggiungere le mete nevralgiche della participatio actuosa dei fedeli. Non è certo facendo leggere un laico o intonare qualche altro che si ottiene questo risultato.

Progettare con la luce.

Uno dei materiali essenziali per la composizione architettonica è l’energia luminosa. Nel caso delle chiese essa possiede una precisa carica simbolica. Lo spiegava liricamente Giovanni Paolo II un po’ di tempo fa: «È un’irradiazione del suo mistero trascendente ma che si comunica all’umanità: la luce, infatti, è fuori di noi, non la possiamo afferrare o fermare; eppure essa ci avvolge, illumina e riscalda. Così è Dio, lontano e vicino, inafferrabile eppure accanto a noi, anzi pronto ad essere con noi e in noi. Allo svelarsi della sua maestà risponde dalla terra un coro di lode: è la risposta cosmica, una sorta di preghiera a cui l’uomo dà voce.
«La tradizione cristiana ha vissuto questa esperienza interiore non soltanto all’interno della spiritualità personale, ma anche in ardite creazioni artistiche. Tralasciando le maestose cattedrali del medioevo, menzioniamo soprattutto l’arte dell’oriente cristiano con le sue mirabili icone e con le geniali architetture delle sue chiese e dei suoi monasteri.

La chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli rimane a questo proposito come una sorta di archetipo per quanto concerne la delimitazione dello spazio della preghiera cristiana, in cui la presenza e l’inafferrabilità della luce permettono di avvertire sia l’intimità sia la trascendenza della realtà divina. Essa penetra l’intera comunità orante fin nel midollo delle ossa e insieme l’invita a superare se stessa per immergersi tutta nell’ineffabilità del mistero. Altrettanto significative le proposte artistiche e spirituali, che caratterizzano i monasteri di quella tradizione cristiana. In quei veri e propri spazi sacri – e il pensiero vola immediatamente al Monte Athos – il tempo contiene in sé un segno dell’eternità. Il mistero di Dio si manifesta e si nasconde in quegli spazi attraverso la preghiera continua dei monaci e degli eremiti da sempre ritenuti simili agli angeli» (6).

Quando vennero diffuse queste parole del Papa, alcuni architetti reagirono con arroganza indispettita, asserendo che nessuno meglio dei progettisti odierni è mai stato capace nella storia di modellare lo spazio con la luce. Sarà vero? Dal Crystal Palace di Londra (7) al progetto del grattacielo che sostituirà le Twin Towers, c’è stata una corsa ininterrotta all’edificio più trasparente. Il rapporto tra queste enormi superfici vetrate e il conseguente spreco di energia suscita più di una perplessità, senza contare l’indifferenza al contesto di queste architetture. In ogni caso non è eliminando il confine tra interno ed esterno che si ottiene una buona chiesa.
Con buona pace degli strenui difensori della superiorità dell’architettura contemporanea, bisogna ammettere che gli architetti bizantini seppero servire la liturgia più adeguatamente di chiunque altro, e con sorprendente audacia, tant’è che la prima cupola di Santa Sofia crollò e fu necessario ricostruirla con maggiore attenzione.

Una sfida per gli architetti.

In Italia la Chiesa cattolica è rimasta l’unica committenza che abbia fiducia e interesse per il lavoro degli architetti. Non esistono una classe politica, una dirigenza o un ceto di mecenati che vogliano la qualità. Esistono casi isolati di incarichi che dimostrano il desiderio di apparire e un discreto complesso di inferiorità nei confronti dei progettisti di grido, ma sono eccezioni che non aiutano a uscire dal vicolo cieco.
La progettazione dello spazio sacro costituisce una sfida intrigante non solo per gli architetti, ma anche per artisti, artigiani e liturgisti. Paradossalmente le risorse finanziarie ci sono, quelle che mancano sono le idee. Per trovare la strada giusta servono anche i contributi dei filosofi, degli storici, degli archeologi, dei teologi. Perché non dare vita a un ampio dibattito su questo tema? Magari, mettendo da parte una buona volta i luoghi comuni triti e ritriti sull’argomento e le ipotesi ermeneutiche prive di fondamento.

Uno degli equivoci più diffusi è l’obbligo morale di ruotare l’altare verso i fedeli. «Il Liber Pontificalis ci dice che, due secoli dopo Gregorio, il papa Pasquale I, a Santa Maria Maggiore, aveva sempre il suo seggio in mezzo alla navata, avendo in tal modo gli uomini davanti a sé e le donne dietro, mentre l’altare restava in fondo. Anche in questo caso, ciò che gli fece spostare il trono pontificale per trasferirlo nell’abside fu, ci vien detto, il suo disappunto nel sentire le donne far commenti su ciò che egli diceva ai suoi diaconi. Tutti questi fatti – e sono questi i fatti che noi abbiamo circa l’origine dell’altare “rivolto al popolo” – mostrano che la disposizione resa celebre da S. Pietro a Roma, e dalla maggior parte delle altre basiliche romane che ne hanno seguito l’esempio, risale indubbiamente a un’epoca molto antica e si avvale di una lunga pratica da parte dei papi. Ma mostrano altrettanto chiaramente che vi si è arrivati attraverso tutta una serie di evoluzioni che corrispondono ben poco a ciò che tanti amano immaginare al giorno d’oggi. Quel che è più importante è che l’origine dell’altare “rivolto al popolo” ha poco o nulla a che vedere con il senso che gli si è attribuito nei tempi moderni.
«Lungi dall’essere primitivo, l’uso di un altare “rivolto al popolo” è anzitutto il risultato relativamente recente (non è anteriore al VI secolo) di un’evoluzione piuttosto complessa. Tutto ciò che noi sappiamo della celebrazione primitiva o della celebrazione che si è strutturata in epoca costantiniana indica un altare situato o in fondo all’edificio o in mezzo alla navata. Nel primo caso, nessuno poteva trovarsi di fronte al celebrante. Nel secondo caso, solo una parte dei presenti si trovava di fronte a lui, e pare che fosse composta unicamente dalle donne.

«L’idea che una celebrazione di fronte al popolo abbia potuto essere una celebrazione primitiva, e in particolare quella della cena eucaristica, non ha altro fondamento se non un’errata concezione di ciò che poteva essere un pasto nell’antichità, cristiano o no che fosse. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma, oppure di una tavola che aveva all’incirca la forma di un ferro di cavallo. Da nessuna parte dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. […] Bisogna aggiungere inoltre che la descrizione del tardo altare romano come di un altare “rivolto al popolo” è puramente moderna. L’espressione non è mai stata usata nell’antichità cristiana. È sconosciuta anche al medioevo» (8).
Stat Crux dum volvitur orbis. La Messa è una celebrazione dinamica per essenza. Essa rinnova e ripropone il sacrificio del Calvario, riassumendo tutto il prima e il poi della storia dell’umanità. Il Redentore rimane inchiodato sulla croce fino alla fine del mondo, offrendo un sostegno misterioso a ogni essere umano che naufraga nel vortice di una vita all’apparenza senza senso. Occorre rappresentare nelle chiese il ruotare del cosmo e della storia attorno al loro asse effettivo, fino a quando esso si manifesterà diafano nella Gerusalemme celeste. L’architettura deve favorire questo movimento, risultato che non si ottiene con la superficiale disposizione delle sedie attorno all’altare, anche perché i luoghi della celebrazione sono molteplici. A tal uopo può essere utile ricuperare il rapporto fisico con il punto cardinale da cui sorge il sole.

«Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore”. Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, J. A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro» (9).

Note:

1 Cfr. Léon Krier, Architettura. Scelta o fatalità, Laterza, Bari 1995. Il progettista lussemburghese, più che alla diffusione dello stile classicista che lo rese famoso negli anni Ottanta, oggi è interessato alla promozione di una progettazione urbanistica – New Urbanism – attenta agli elementi intramontabili della vita sociale.
2 Peter Hammond, Liturgy and architecture, Barrie and Rockliff, London 1960, pp.11, 28 e 38.
3 Rudolf Schwarz, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999. Il modello progettuale del “duomo di tutti i tempi”, proposto nel libro, si fonda su una cristologia alquanto dubbia.
4 Caroli Borromei, Instructionum fabricæ et supellectilis ecclesiasticæ libri II (1577).
5 Steven J. Schloeder, Architecture in Communion. Implementing the Second Vatican Council through Liturgy and Architecture, Ignatius Press, San Francisco 1998, pp.134-135.
6 Giovanni Paolo II, Udienza del 15 maggio 2002, commento ad Abacuc 3,2-3.18-19.
7 «Il Crystal Palace del 1850-51, che ospitò la Great Exhibition, fu progettato da Joseph Paxton, ingegnere/orticultore, il quale effettivamente trasferì la serra da un contesto a un altro. Quest’ampio capannone vetrato fu interamente assemblato con elementi standardizzati di ferro, legno e vetro, e fu progettato per esporre gli oggetti e i prodotti delle potenze economiche concorrenti, ma si innalzò al di sopra di questi interessi mondani, dissolvendosi negli alberi e nel cielo e rivelando un senso di spazio, trasparenza e leggerezza, senza precedenti». William J. Curtis, L’architettura moderna del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999, p.36.
8 Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Edizioni Qiqajon, Magnano 1994, pp.37-38.
9 Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p.76.







 
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